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- Categoria: Storytelling
- Pubblicato: Martedì, 15 Settembre 2020 14:18
- 15 Set
Vigevano e la calzatura
Vigevano ha scritto la storia della calzatura italiana e ha influenzato quella mondiale; ogni persona che vuole visitare questà città dovrebbe sapere la gloriosa storia industriale di questa città e noi siamo qui per farvi conoscere questo mondo.
L’INDUSTRIA.
Nelle manifatture accentrate, l’imprenditore gestiva l’amministrazione, eseguiva gli acquisti, dirigeva la produzione e curava le vendite, utilizzando strumenti di sua proprietà, una crescente divisione del lavoro e una sempre più estesa regolamentazione dell’attività. Questa progressiva divisione e regolamentazione del lavoro agevolò l’impiego delle macchine, intese non come strumenti che prolungano l’azione dell’uomo, ma come realtà che la sostituiscono, subordinandola alle loro necessità intrinseche; allora, la manifattura accentrata si trasformò in fabbrica.
Dall’inizio del 1800 all’unità d’Italia, a Vigevano, le caratteristiche dell’artigianato calzaturiero, emerse dall’andamento secolare descritto nella prima parte di questo articolo, erano state confermate o si erano accentuate, come traspare dai ruoli di popolazione e tassazione, compilati tra il 1805 e il 1839. In seguito a tale plausibile evoluzione, lo sfruttamento del tempo, l’aumento della produttività e il controllo dei lavoranti, furono, tra il 1860 e il 1880, le necessità prevalenti che stimolarono qualcuno a concentrare la produzione in un solo edificio, mantenendo, però, la divisione per fasi di lavorazione.
A fondare questi nuovi stabilimenti, di cui i più importanti occupavano da 40 a 300 addetti, erano sovente imprenditori di origine strettamente operaia, che, dopo aver acquisito l’essenza del mestiere dai precursori, sentivano il desiderio impellente di tentare, in proprio, l’affascinante avventura di una emancipazione lavorativa, seconda una schietta tradizione vigevanese. Fino alla fine del secolo, queste fabbriche, spesso di piccole dimensioni, facevano un uso molto ridotto di macchine semplici, in maggioranza cucitrici di provenienza tedesca o americana e la loro lavorazione avveniva prevalentemente a mano, sul tradizionale deschetto o sul banchetto, introdotto in quel tempo.
Questo primo sviluppo industriale del settore calzaturiero vigevanese, di cui, in gran parte, si sono perse le tracce, fu accompagnato dalla contemporanea vertiginosa diffusione della produzione artigianale, in un modo già sperimentato, nella storia economica della città, in altri settori, come quello tessile. La manodopera impiegata in questo ambito produttivo, fu sensibilmente superiore a quella industriale e distribuita in numerosi laboratori, che continuavano la tradizionale lavorazione a mano, nel più puro spirito artigianale, con l’orientamento prevalente alla qualità. Esisteva, infine, un più esteso numero di lavoranti, di tipo manuale, a domicilio, per conto sia delle imprese industriali sia di quelle artigianali.
L’ESPANSIONE DEI CALZATURIERI.
Una progressione stupefacente ebbe, nei primi dieci anni del Novecento, lo sviluppo del settore calzaturiero, che riuscì a diventare la nuova manifestazione monoproduttiva di Vigevano, superando ampiamente il comparto tessile.
Questo dilagante impegno industriale, accompagnato da una ramificazione minuziosa di tipo artigianale, in laboratori e manifatture decentrate, spesso con esso collegata, ricevette un ulteriore impulso diffusivo dallo scoppio della prima guerra mondiale, che accrebbe molto le normali. Ad eccezione di un breve periodo recessivo, durante la grave crisi mondiale del 1929, la produzione calzaturiera continuò a svilupparsi, Vigevano fu anche la prima località italiana a cominciare, nel 1929, la produzione di calzature di gomma.
IL CONTRIBUTO ALLO SVILUPPO.
Dopo la triste parentesi della seconda guerra mondiale, caratterizzata da un forte regresso produttivo, per il settore calzaturiero si verificò un nuovo sviluppo straordinario, negli anni compresi tra il 1947 e il 1960. Si verificò uno spostamento massiccio dall’artigianato all’industria, intendendo tali categorie nel senso storico, come diverse tipologie produttive. Vale la pena di aggiungere che, secondo valutazioni non di censimento, ma attendibili e particolarmente illuminanti, il settore calzaturiero vigevanese, dal 1954 al 1960, passò come numero d’aziende, da 730 a 870 unità e, nella produzione annua, da 15 a 21 milioni di paia; fu un’espansione prevalentemente estensiva, con una manodopera in gran parte immigrata (dalla Lomellina, dal Veneto e dal Meridione).
Vigevano vide un pullulare stupefacente di laboratori artigianali e di imprese industriali sicuramente eccezionale nella sua storia produttiva. In città, si producevano tutti i tipi di calzature, di qualsiasi qualità e per ogni categoria, con un soddisfacimento veramente impressionante delle innumerevoli esigenze.
Molto importante fu la progressione con cui si perfezionarono e diffusero, in quel periodo, le aziende subfornitrici di ogni tipo (particolarmente quelle per i tacchi, le forme, le fustelle e le scatole), generando un tessuto di sostegno completamente soddisfacente le necessità dei calzaturifici, sempre più integrati con esse e con le aziende meccaniche, in un sistema di imprese dalla complessità crescente.
Una struttura produttiva così importante doveva necessariamente ricercare un suo riflesso professionale e lo trovò nella “Settimana Vigevanese”, che, nata nel 1931, diventata, nel 1939, “Mostra Mercato Nazionale”, esposizione merceologica generica, ma con netta prevalenza delle calzature, per nove anni costituì anche un importante avvenimento riguardo al costume cittadino.
L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO.
Sino alla fine dell’Ottocento, nel settore calzaturiero, i lavoratori sedentari svolgevano generalmente la loro attività in un solo locale, fornito di tutta l’attrezzatura necessaria alle fasi di lavorazione e distinguibile in laboratorio o bottega, se privo o dotato di vetrina per l’esposizione dei prodotti. Quelli ambulanti, invece, quando rimanevano in città, operavano nella loro abitazione o all’aperto, in vie o piazze diverse, occupando i luoghi più adatti per esercitare, senza disturbo, il loro folcloristico lavoro, accompagnato da discussioni, declamazioni e canti, secondo le occasioni o gli interlocutori. Invece, durante l’emigrazione stagionale, dopo aver accuratamente evitato di acquisire come nuovi clienti quelli già serviti dai loro colleghi, praticavano il mestiere nella casa o nella stalla del committente, usufruendo, come parziale ricompensa, del suo vitto e alloggio.
Il complesso procedimento produttivo, articolato in misurazione, costruzione di forme, realizzazione di modelli, taglio, orlatura, montaggio e finissaggio, era svolto interamente a mano dal mastro artigiano, coadiuvato dai lavoranti, costituiti da famigliari ed estranei. L’attrezzatura era costituita dal tradizionale deschetto (quando era utilizzabile), con gli arnesi essenziali da misura, taglio, foratura, cucitura, battitura, estrazione, raspatura, limatura, finitura e gli altri integrativi, dalla mutevole varietà. I metodi lavorativi, secondo il riferimento tradizionale alla fase di montaggio, erano diversi ma facilmente riconducibili ai tre fondamentali: il cucito, l’inchiodato e il rovesciato, nella loro comune accezione, riguardante la diversa tecnica adottata nell’unione tra la tomaia e il fondo.
I primi calzaturifici avevano al loro interno una piccola officina per la manutenzione o si facevano assistere da altre analoghe, ma esterne, tradizionalmente adibite a soddisfare varie esigenze costruttive o di recupero, provenienti da campi disparati. Dall’inizio del Novecento, la crescita vertiginosa del calzaturiero le spinse alla specializzazione o ne fece nascere altre, orientandole soprattutto verso la riparazione e la costruzione di macchine per calzaturifici, eguagliarono e superarono la concorrenza interna ed estera. Fino ai nostri giorni, la loro progressiva diffusione le ha portate al predominio italiano e mondiale del settore, con una variegata gamma di stabilimenti, spesso consistenti; strettamente legati ai calzaturifici e alle subfornitrici, esse hanno con loro costruito, nel tempo, il sistema calzaturiero vigevanese.
Generalmente, la disposizione delle attrezzature all’interno di questi stabilimenti non è stata realizzata per fase, ma per tipo di lavorazione, con la collocazione di macchinari aventi funzioni comuni nella stessa area.
Il ciclo di produzione di queste aziende è sempre stato quello classico dei produttori di beni strumentali: costruzione di componenti, montaggio e collaudo, di vario genere; è aumentato, nel tempo, il loro ricorso alla subfornitura. Anche i sistemi di lavorazione sono sempre stati quelli tipici dei metalli: la trasformazione senza asportazione di trucioli (laminatura, trafilatura, estrusione, fucinatura, stampaggio e fusione) e la fabbricazione con asportazione di trucioli, per mezzo di strumenti o di macchine. Essendo soggette al susseguirsi di ordini limitati e variabili, queste imprese hanno perseguito raramente la produzione di massa; in genere hanno adottato la costruzione per lotti e serie di piccola e media consistenza
L’organizzazione produttiva per piccoli o medi lotti ha mantenuto, nel tempo, tali caratteristiche: variabilità del processo, ampiezza di competenze, sensibile autonomia lavorativa, scarsità di controlli, mutabilità delle procedure e alta incidenza della professionalità. Quella per piccole e medie serie, invece, ha manifestata queste peculiarità: ripetitività del processo, determinazione delle mansioni, scarsa autonomia lavorativa, sistematicità dei controlli, rigidità delle procedure e bassa incidenza della professionalità.
Un contributo rilevante al lavoro vigevanese, spesso dimenticato, è stato fornito dagli impiegati, già riscontrabili, all’inizio dell’industrializzazione, ma cresciuti progressivamente, in seguito, fino a raggiungere una presenza consistente. L’ampliamento delle imprese, la divisione del lavoro, l’articolazione delle mansioni e la meccanizzazione della produzione generarono, in modo vario, la necessità di una maggiore diffusione. In questo andamento si possono rilevare alcune fasi fondamentali, corrispondenti a diverse forme organizzative delle aziende, tuttora rappresentate nella realtà cittadina, dopo il loro secolare sviluppo.
All’inizio, l’imprenditore riservò completamente a sé stesso l’esercizio delle tipiche funzioni aziendali (amministrativa, produttiva e commerciale), proseguendo nell’attività svolta dal mastro artigiano. Successivamente cominciò ad apparire l’impiegato, sia amministrativo sia tecnico, scelto di preferenza nell’ambito familiare, ma qualche volta pure in quello dei lavoranti. Si trattò di una trasformazione prudente avviata, secondo la terminologia dell’epoca, nelle funzioni esecutive, produzione e vendita, mentre l’imprenditore mantenne ancora quelle direttive, finanza e amministrazione, ritenendole determinanti.
L’ulteriore progresso aziendale vanificò queste rimanenti riserve, spingendo il datore di lavoro a nominare alcuni suoi assistenti, sia nell’ambito direttivo sia in quello esecutivo, al fine di essere sollevato da ogni impegno eccessivo. Questi nuovi impiegati svolsero le mansioni di portaordini dell’imprenditore, divenendo un prolungamento della sua personalità, senza autonomia decisionale nella loro competenza, ma con un potere riflesso nei confronti dei loro subordinati. La struttura aziendale divenne, allora, di tipo lineare, con, al vertice, l’imprenditore, in posizione intermedia, gli assistenti e, alla base, i capi preposti alle funzioni direttive ed esecutive.
Nel periodo considerato, quindi, l’originalità di Vigevano fu questo sistema calzaturiero costruito lungamente nel tempo, in cui distributori di materie prime, fabbricatori di scarpe, fornitori di componenti, elaboratori di fasi, prestatori di servizi e produttori di macchine divennero elementi così interdipendenti da formare, tra loro, un insieme organico, con caratteristiche economicamente avanzate, a livello nazionale e internazionale. In corrispondenza a questo sviluppo, si era venuta anche formando una cultura calzaturiera altrettanto esclusiva, maturata sul lavoro, approfondita con il museo della calzatura, custodita nell’archivio storico cittadino, arricchita con le biblioteche locali, tramandata nella formazione e diffusa con le mostre. Almeno dal 1980, purtroppo, ragioni interne e internazionali, hanno provocato la crisi di questo sofisticato sistema, con riflessi alquanto preoccupanti per il lavoro vigevanese; si è andata, perciò diffondendo l’impressione di un lento ma inarrestabile declino, pur con temporanei recuperi, del sistema calzaturiero.
Il Museo della Calzatura ”Pietro Bertolini” di Vigevano è una realtà museale unica, dedicata alla storia e all’evoluzione della scarpa vigevanese. Si trova in una delle ali del Castello Sforzesco e può essere definito come un racconto, un viaggio, una narrazione: di un prodotto, della sua storia, ma anche dell’economia di Vigevano e dell’evoluzione nazionale nel corso degli anni, non solo del design e della moda.
A Vigevano abbiamo prove risalenti al 1392 che parlano della tradizione produttiva legata alla realizzazione di scarpe. Il primo calzaturificio industriale nacque nel 1866, la prima fabbrica italiana di macchine per calzature nel 1901 e le prime scarpe da tennis in gomma negli anni Venti. Proprio per questo la città assume la fama internazionale di “capitale della calzatura” negli anni Cinquanta e Sessanta, quando si producevano più di 21.000.000 di paia di scarpe in città! Proprio in questi anni nasce il museo, voluto dallo storico Luigi Barni e intitolato all’imprenditore Pietro Bertolini. Oggi il museo mostra circa 400 calzature, su un patrimonio complessivo di oltre 3000 pezzi.
Vi sono inoltre pezzi di raro valore storico, come la pianella datata 1495, appartenuta a Beatrice d’Este; le scarpette in raso del tardo Settecento veneziano, particolari produzioni degli anni Venti e Trenta. Inoltre a Vigevano sono stati prodotti i primi tacchi a spillo della storia nel 1953! All’interno del museo non mancano zeppe e plateaux degli anni Settanta. L’esposizione include calzature appartenute a personaggi famosi, tra i quali diversi pontefici, Mussolini e Maria Josè di Savoia.
Il Museo Internazionale della Calzatura Pietro Bertolini di Vigevano (MIC) è la prima istituzione pubblica in Italia dedicata alla storia della scarpa.
La sua nascita è dovuta alla donazione fatta nel 1948 dall’industriale Pietro Bertolini al Comune di Vigevano. In cambio della sua ricca collezione personale Bertolini aveva solo imposto come condizione un contesto adeguato alla sua esposizione al pubblico. In realtà i primi spazi espositivi erano stati temporanei e inadeguati, a seguito delle pressioni degli eredi, era stato istituito il Civico Museo della Calzatura Pietro Bertolini, la cui sede era stata individuata in Palazzo Crespi, che già ospitava Museo e Biblioteca Civici.
Nel settembre 1972, con quattordici anni di ritardo, il Museo era stato effettivamente collocato nel palazzo, presso un locale a piano terra, in ambienti appositamente arredati seppure di ridotte dimensioni.
Condannato all’invisibilità per oltre trent’anni da successive amministrazioni che ne ignoravano le potenzialità il Museo ha finalmente ripreso vita nel 2003, grazie all’interessamento e alla tenacia di “Progetto Agenda”, un’associazione tra imprenditori e privati cittadini presieduta dall’ingegnere Crespi e finalizzata alla valorizzazione di Museo e Castello. Uno spazio prestigioso all’interno del Castello Sforzesco, consistente in undici sale situate al primo piano della prima scuderia, è stato messo dal Comune a disposizione della Pinacoteca Civica e del Museo della Calzatura, affidate per un breve periodo alla direzione di Matteo Mainardi, che ne ha curato il primo allestimento. Nel 2009 le due entità sono state separate più nettamente ed il Museo è stato trasferito nelle sale collocate sopra la seconda scuderia, dove attualmente risiede.
Nel 2004 si è verificata una importante svolta in seguito al coinvolgimento di tre personaggi di spicco del mondo della moda calzaturiera. L’intervento nelle scelte artistiche e nella strategia di comunicazione da parte dei designer Armando Pollini e Andrea Pfister con il suo socio Jean Pierre Dupré ha modificato l’impostazione istituzionale mantenuta sino a quel momento, trasformando il Museo in una realtà dinamica ed internazionale, dandogli maggiore visibilità e prestigio.
Le Donazioni
Alla prima fondamentale donazione di Pietro Bertolini, senza la quale non sarebbe esistito il Museo, se ne sono aggiunte altre nel corso degli anni, provenienti da privati ed istituzioni.
Negli anni ‘60 gli eredi di Bertolini attraverso i Rotary di ogni parte del mondo hanno arricchito la collezione di importanti pezzi etnici e alla fine degli anni ’90, con l’interessamento del Lions Club femminile, sono stati raccolti pezzi storici dalle aziende vigevanesi.
Negli ultimi anni attraverso contatti privilegiati sono arrivati al Museo circa duecento modelli dalla donazione di Benedicte Jourdan, erede Charles Jourdan; la ricchissima collezione di Aldo Sacchetti; alcuni preziosi pezzi di André Perugia dalla donazione di madame La Faury, collezionista e amica del grande stilista. A queste preziose testimonianze della storia della calzatura si aggiungono donazioni da parte di designer e operatori; alcune molto ampie come Armando Pollini, El Vaquero, Nello Nembro, Fornasiero, altre costituite da pochi modelli.
Qui sotto possiamo vedere i tipici oggetti che si usavano per disegnare e costruire scarpe negli anni '70 e 80'.