Il settore manifatturiero a Vigevano: storia e strutture legate ad esso

  • Categoria: Storytelling
  • Pubblicato: Martedì, 15 Settembre 2020 13:25
  • 15 Set

 

STORIA DELLA MANIFATTURA A VIGEVANO

Vigevano è da secoli uno dei poli di riferimento per quanto riguarda la manifattura lombarda e italiana: fu Ludovico Il Moro a introdurre nel capoluogo lomellino l'industria della seta che accanto alla già consolidata tradizione laniera contribuirà ad assegnare una fisionomia ben definita a uno dei principali centri industriali dell’Italia settentrionale.

L’industria legata alla produzione di tessuti ha una storia antica: nei secoli XIV-XVI Vigevano si specializzò nella manifattura laniera, con la realizzazione di arazzi, per poi passare nei secoli XVII-XIX alla serica, e infine a quella cotoniera.

Nel 1787 Vigevano era sede di una “Università dei mercanti di seta” e come tale, si collocò al terzo posto tra i grandi centri industriali del Regno di Sardegna.

Nel 1810 operavano in città già 56 filande, con oltre 900 addetti cadauna, con un totale di circa 5000 lavoratori: la città era definita “la Biella della Lomellina”.

Nel 1866 sorse a Vigevano, città da sempre vocata alla manifattura, il primo calzaturificio italiano (Luigi Bocca); in circa 40 anni i laboratori diventarono 36 e quasi 10.000 le persone occupate nel settore (molte delle quali lavoranti a domicilio).

Nel 1896 il cotonificio Gianoli aveva due stabilimenti, con oltre 1100 operai e la filatura/tessitura Crespi, in zona Mondetti, occupava quasi 800 persone. Nello stesso anno, nacque un nuovo setificio, il “Cascami Seta” che diede un ulteriore impulso all’attività serica, ed è l’unico complesso tutt’ora esistente (per lo meno la struttura) in città.

La manifattura calzaturiera cominciò ad affermarsi durante la prima guerra mondiale per raggiungere l'apice durante gli anni cinquanta, in contemporanea all'esportazione di decine di milioni di scarpe in Italia e all'estero che permisero a Vigevano di guadagnarsi il titolo di capitale della calzatura.

Parallelamente all'industria calzaturiera si diffuse anche l’industria tessile per la lavorazione della seta e del cotone.

Nel 1936 Vigevano contava 71 opifici tessili, ma con il passare del tempo l’industria tessile perse importanza in una Vigevano che si proclamava capitale della scarpa. Fu così che tantissime delle filande attive, fino alla metà degli anni ’50, divennero fabbriche di calzature, facendo così sparire il ricordo di una Vigevano che viveva grazie ai tessuti.

Nel 1937 si contavano 873 aziende con 13.000 dipendenti fino ad arrivare a 900 aziende con quasi 20.009 addetti nel 1965.

Nel secondo dopoguerra il settore tessile si ridimensionò fortemente mentre quello calzaturiero, dopo il boom degli anni cinquanta e sessanta, a partire dagli anni settanta, iniziò un drastico declino con il progressivo spostamento della produzione verso i paesi in via di sviluppo e una forte concorrenza interna. Ebbe così inizio una crisi sempre più profonda del settore compensata solo in parte dallo sviluppo dell’industria metalmeccanica finalizzata a produrre macchinari per la lavorazione delle calzature, che resiste nonostante la forte concorrenza dei paesi emergenti. Il settore calzaturiero è ancora presente e Vigevano rimane uno dei luoghi dedicati alle calzature nel Nord Italia, anche se in una forma molto minore rispetto al passato, e uno dei riferimenti per l'industria calzaturiera italiana, grazie anche a una specializzazione nel meccano-calzaturiero che ha portato Vigevano ad essere leader mondiale nella produzione di macchinari per calzature.

Ad oggi Vigevano fa parte dell'area distrettuale vigevanese dedita al commercio come definita dalla Regione Lombardia, comprende otto comuni della provincia di Pavia: Borgo San Siro, Cassolnovo, Cilavegna, Gambolò, Garlasco, Gravellona Lomellina, Parona e Vigevano.

I settori di specializzazione sono fondamentalmente due: calzaturiero e meccano-calzaturiero.

Il primo comprende tutta la filiera della preparazione e della concia del cuoio e della fabbricazione di calzature, borse e articoli in pelle di vario genere; il secondo è specializzato nella fabbricazione di macchine e apparecchi meccanici per concerie, calzaturifici, pelletterie, suolettifici, tomaifici e per la produzione di suole in materiali sintetici, stampi e pezzi di ricambio (compresi anche l’installazione, il montaggio, la riparazione e la manutenzione).

In entrambi i settori, il territorio del distretto vigevanese può contare su imprese di livello eccellente: nel calzaturiero per la capacità di coniugare qualità e design e nel meccano-calzaturiero per le soluzioni tecnologiche adottate.

 

ESEMPI DITTE PRODUTTRICI

Importanti esempi di aziende del settore maccano-calzaturiero a Vigevano:

-la ditta Mega Stampi, specializzata nella produzione di stampi per il settore calzaturiero.L'azienda produce stampi per suole TR, PVC, poliuretano, EVA. Essa è presente sul mercato da oltre 40 anni, è in grado di svolgere tutti i passaggi di lavorazione all'interno della sede aziendale, utilizzando le più moderne tecnologie.

 

 

 

 

 

-la ditta Galli, azienda leader nel mercato per la progettazione, produzione e vendita di macchine per la pelletteria.

 

 

 

 

 

-la ditta Giardini, specializzata nella produzione di materiali in polituretano per tomaie di calzature tecnico sportive e moda.

 

 

 

 

 

MUSEO DELLA CALZATURA

Il mondo della scarpa e Vigevano da più di cent’anni formano un binomio indissolubile.

Vigevano è stata a lungo la capitale italiana e in alcuni momenti anche mondiale della calzatura.
Se un museo pubblico dedicato alla scarpa doveva nascere, ciò poteva avvenire solo a Vigevano.
Il Museo è disposto in sezioni: si inizia con La Stanza della Duchessa, si prosegue con la sezione Storica, Etnica e Wunderkammer, Stile e design, Tacco a spillo. L’ultimo corridoio, chiamato “La Galleria”, è sede di mostre temporanee.Nel Museo sono esposti molti modelli prodotti a Vigevano per la prima volta e che sono serviti da modelli per tutto il mondo, come le sovrascarpe in gomma e le scarpe da ginnastica degli anni ’30, o le calzature con tacco a spillo degli anni ’50. La scarpa è vista, grazie ad una sapiente esposizione, anche come fenomeno storico, etnico e di costume.Questa chiave di lettura è ben presente nella sezione etnica, e in quella storica, nella quale è possibile seguire lo svolgere del gusto estetico nella moda, soprattutto femminile, dal ‘700 ad oggi. Non manca poi la possibilità di ammirare calzature “strane”: molto piccole, o molto grandi, oppure scarpe appartenute a personaggi famosi, su tutti le scarpe dei papi. Non si tratta di una semplice vetrina di belle scarpe, ma nel museo si può ammirare con una rapida carrellata modelli molto diversi nel gusto e nell’utilizzo di materiali e stili: da scarpe con tacchi vertiginosi a espadrillas, dalle zeppe anni ’70 alle classiche decolleté.

Una particolare attenzione viene dedicata all’aspetto “estetico” dei pezzi esposti: calzature datate e recenti, stravaganti e classiche, che non possono che attirare attenzione, curiosità ed ammirazione. La scarpa, dunque, non solo come un normale oggetto d’uso quotidiano, ma come un concentrato di tecnologia, fantasia, innovazione, gusto estetico, tutte caratteristiche che rendono la scarpa una vera opera d’arte degna di essere esposta in un museo ad essa dedicato.

 

STORIA DEL TACCO A SPILLO

A Vigevano, nei primi anni Cinquanta nasce il tacco a spillo.

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, Christian Dior inventa il "new look", cioè abiti molto femminili e sofisticati, che necessitavano di calzature adeguate, provviste cioè di un alto tacco, esile e slanciato, che tuttavia, essendo realizzato in legno, a causa dell'esiguo diametro, si spezzava facilmente. La soluzione arriva proprio da Vigevano: nel gennaio 1953, alla XVI edizione della Mostra Mercato Internazionale delle Calzature di Vigevano, i calzaturifici della città ducale presentano in anteprima mondiale un modello altamente innovativo di tacco, poggiante cioè su base d'appoggio rinforzata in alluminio. La scarpa proposta in fiera è dotata di un tacco con la metà superiore in legno e la base d'appoggio in alluminio, molto resistente, alto tra gli 80 ed i 100 millimetri, con un sopratacco da 8 millimetri di diametro.
Le principali ditte cittadine, come L'Invitta di Re Marcello, Caimar-Cesare Martinoli, Erco-Gino Aldrovandi, Brunis Barbavara, Waltea, Panvi con la collaborazione del modellista bolognese Luciano Volta e dei Tacchifici di Molinella (Bologna) ed Elite (Legnano) danno vita ad una produzione di alta qualità che ottiene un immediato successo di mercato e di pubblico.
Da quel prototipo, esposto in Museo, la storia delle ditte di Vigevano e del tacco a spillo non si è più interrotta, portando la produzione vigevanese a collaborare con i più prestigiosi marchi del mondo.
Tra le numerose varietà di scarpe con tacco a spillo esposte, degne di nota sono le décolletée con tacco a spillo in raso verde con borchiette e strass di un produttore italiano sconosciuto, datate 1956, appartenute a Marilyn Monroe. L'attrice, icona di stile, ha reso famosa questa tipologia di calzatura, prediligendo il modello décolleté tacco 11 nei colori beige e il nero.

 

STORIA DELLA LAVORAZIONE DELLA SETA

Durante la signoria degli Sforza in Lomellina vennero introdotte quelle nuove colture che avrebbero plasmato l'aspetto e la storia di questa terra: non soltanto il riso, con le sue vaste risaie e le grandi cascine a corte chiusa, ma anche il gelso, per alimentare i bachi e produrre la seta. Fu proprio Ludovico Maria Sforza detto il Moro (Vigevano, 27 luglio 1452 – Loches, 27 maggio 1508), il duca di Milano che trasformò l'amata Vigevano in residenza principesca e importante centro economico e artistico, a incentivare la coltivazione del gelso.

Le storie del baco e degli Sforza sono così strettamente legate che il soprannome di Ludovico secondo alcuni storici deriverebbe proprio dal nome locale della pianta, moron (Alessandro Visconti, Storia di Milano, 1945). La seta è destinata a diventare nei secoli successivi la maggiore fonte economica della zona. Vigevano, cuore storico ed economico della Lomellina, fu per secoli un centro tessile con un ruolo di spicco all'interno del "triangolo della seta" compreso tra Milano, Venezia e Mantova.

Questa attività in terra lombarda si venne via via rafforzando ed estendendo così da incidere profondamente sull’economia agricola, ed in seguito anche sull’imprenditoria con il conseguente diffondersi nel XVIII secolo di opifici per la lavorazione della seta e di filatoi.

L’industria della seta ruppe il cerchio di una agricoltura estremamente depressa, e portò ai magri bilanci dei contadini le prime entrate in denaro, migliorò l’alimentazione nelle campagne e rinnovò i decrepiti casolari.

La campagna lombarda ebbe quindi visivamente impressi i segni dell’attività sericola: filari di gelso separavano i campi nella Lomellina e nel Pavese.

Nelle case degli agricoltori e degli operai c'era un angolo con una stuoia di foglie con sopra i bachi da seta.

Ad occuparsi dei "bigat", i bachi da seta, erano soprattutto le donne e i bambini, anche se in certi periodi doveva lavorare tutta la famiglia. I fortunati avevano una stanza solo per i bigat, ma i più ritagliavano un po' di spazio in cucina o nella camera da letto per arrotondare così le entrate. I bachi diventavano per amore o per forza parte della famiglia e non ci si stupiva del fastidio di trovarseli nel letto.

Spesso le donne di casa allevavano i bachi per arrotondare i salari e pagare la dote delle figlie.

Nella nostra provincia, ai primi del Novecento, si producevano 34 mila chilogrammi di bozzoli di prima scelta.

La principale occupazione dei bachi era mangiare e, di conseguenza, la principale occupazione delle famiglie era nutrirli, a base del loro unico cibo, le foglie dei "muron", dei gelsi. Queste piante erano abbastanza numerose nelle campagne; i più fortunati ne possedevano qualcuna vicino a casa o nei propri campi, mentre altri dovevano comprarne le foglie da chi ne aveva in abbondanza.

Subito dopo la pesatura i bozzoli dei bachi da seta venivano venduti ai commercianti o direttamente alle filande.

Vigevano era una piazza molto importante per il commercio dei bozzoli.

La seta di prima scelta invece, raccolta in casse da un quintale, veniva inviata alle seterie e trasformata in pregiati tessuti.

Dopo la Prima Guerra Mondiale l’allevamento del baco andò diminuendo e cessò completamente verso il 1930 con l’avvento della seta artificiale.

Cominciò così un incontrastabile declino, che fece scomparire insieme una realtà contadina ed una industriale.

Questa importante industria, che per tanto tempo diede il sostentamento e in parte il benessere ai nostri paesi, è già dimenticata dalle nuove generazioni.

 

IMPRENDITORI DELLA SETA

I Bonacossa sono stati i protagonisti della rivoluzione industriale della Lomellina. La famiglia di imprenditori della seta originari di Dorno ha costruito e gestito decine di filande in Lomellina e in tutto il Nord Italia a cavallo di Otto e Novecento dando lavoro a decine di migliaia di uomini, donne e fanciulli. Autentica dinastia di imprenditori, questa famiglia è legata a Vigevano dalle sue filande.

Tutto ebbe inizio a Dorno con il capostipite Vincenzo (1810-1892), che seppe sfruttare l’allevamento del baco da seta (bigàt), molto diffuso nella Lomellina agricola di metà Ottocento. Il bruco veniva alimentato con germogli teneri di foglie di gelso (muròn) e, in quattro giorni, finiva la tessitura del bozzolo: poi, il baco si arrampicava sul “bosco”, un’impalcatura fatta di ramoscelli, e dalla bocca lasciava uscire un liquido che, a contatto con l’aria, solidificava in un filamento chiamato bava, cioè la seta. Quindi tutto passava alla filanda. I setifici costituirono il cuore del primo processo di industrializzazione della Lomellina: aziende artigianali, laboratori e ditte manifatturiere lavoravano già la seta dalla seconda metà del Settecento e il cotone dalla prima metà dell’Ottocento. Attorno al 1870 numerose filande nella zona furono assorbite dai Bonacossa, che daranno lavoro a migliaia di operai fino al terzo decennio del Novecento, quando la seta sarà soppiantata dalle prime fibre artificiali.

Vincenzo era affiancato dai figli Luigi, Pietro, Giuseppe (1841-1908) e Cesare (1850-1919), che da Dorno si trasferirono a Vigevano, base di partenza del loro impero. L’Inchiesta agraria del 1882 rivela che l’industria vigevanese di Pietro Bonacossa occupava 530 operaie, 45 uomini e 80 bambini, con una forza motrice di 10 cavalli, la più alta della provincia. Nemmeno il grande incendio che nel 1877 ridusse in cenere la filanda Bonacossa, mise in ginocchio la dinastia.

A Dorno, in via Cairoli, l’opificio di Luigi Bonacossa dava lavoro a 54 donne e a 26 bambini, mentre un secondo stabilimento, chiuso nel 1930, occupava 80 donne per circa 150 giorni l’anno.

La svolta avvenne negli ultimi vent’anni dell’Ottocento: l’avvento del protezionismo e la sconfitta della malattia del baco catapultarono le industrie lomelline verso i mercati europei e internazionali e si perfezionarono la trattura e la torcitura. Nel 1898 a Vigevano fu avviato lo stabilimento della Cascami Seta, dove si lavoravano i cascami della seta, cioè i sottoprodotti dell’allevamento dei bachi, della trattura e della torcitura.

 

INDUSTRIA CASCAMI SETA

La fabbrica Cascami Seta prende il nome dell’omonima società costituita a Milano nel 1872, che cominciò la costruzione del complesso industriale di Vigevano nel 1897, l’attuale via Matteotti nel 1905, le case operaie nel 1910, la chiesa di S. Giuseppe nel 1926 e il collegio operaio con 400 posti letto tra il 1920 e il 1930.

Questa industria, diede lavoro a più di 800 persone. La parte più rilevante del complesso, oggi in parte demolito per ospitare altre industrie, è il fronte lungo il viale Libertà: il corpo a due piani caratterizzato da scansioni di archi ribassati contiene varie tipologie di infissi in relazione alle funzioni interne, è diviso in due parti da una torretta elevata di tre piani caratterizzata da decorazioni di a lesene e balconata in sommità.

Adiacente alla fabbrica sorgono le caratteristiche abitazioni operaie, edificate su due piani suddivise ai tempi in quattro o sei unità famigliari; Le facciate sono a mattone a vista, e normalmente possedevano o possiedono tutt’oggi un piccolo lotto di terreno davanti, per permettere agli operai di lavorare un piccolo orto.

Sul lato destro della fabbrica venne eretta nel 1926 la Chiesa di San Giuseppe, in stile romanico con archi poligonali. Nel 1929 venne aggiunto l’altare in legno di “Maria Bambina”, patrona del quartiere.

Insomma, la fabbrica Cascami Seta, oltre ad essere luogo di lavoro era una vera e propria piccola città, in cui gli operai potevano trovare tutto ciò che le serviva.