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08/05/2025 08:41
Per i referendum dell’8 e 9 giugno, a Milano voteranno 10 mila studenti e lavoratori fuori sede. Un numero che raddoppia rispetto a un anno fa e che, secondo l’assessora ai Servizi civici Gaia Romani, rappresenta “un’ottima notizia” e un passo avanti verso il riconoscimento pieno di questo diritto. Si tratta, infatti, della seconda sperimentazione del voto fuori sede in Italia, questa volta estesa anche ai lavoratori e non più limitata solo agli studenti.
Il precedente più vicino è dunque quello delle elezioni europee del 2024, quando Milano raccolse circa 5.000 richieste. E fu un esperimento che regalò sorprese non solo sul fronte organizzativo, ma soprattutto su quello politico. I fuori sede, che hanno potuto votare nel comune in cui studiano hanno mostrato un orientamento elettorale radicalmente diverso rispetto al resto della città (e del Paese).
Alle europee, infatti, i risultati tra i domiciliati temporanei parlavano chiaro: Alleanza Verdi e Sinistra al 48,84%, Partito Democratico al 23%, Azione e M5S tra il 7 e l’8%. Fratelli d’Italia, il primo partito a livello nazionale, ha raccolto solo il 2,37% dei voti tra i fuori sede. La Lega? Nemmeno mezzo punto percentuale.
Le ragioni? Prevedibili ma significative: si tratta in larga parte di giovani, spesso universitari, sensibili ai temi ambientali, ai diritti civili, all’inclusione.
Eppure, nonostante il potenziale di questa innovazione, la sperimentazione del voto fuori sede alle europee non ha avuto il successo sperato, in tutta italiana erano arrivate 23 mila richieste, e appena 17 mila voti effettivamente espressi. Un’adesione molto bassa se si considera che gli studenti fuori sede in Italia sono quasi 600 mila.
Il modello va quindi rafforzato, strutturato e semplificato e Milano, con i suoi 10 mila fuori sede attesi alle urne per i referendum, mostra che la domanda c’è. Ora tocca alla politica trasformare questa eccezione in una regola stabile, perché il diritto di voto non dovrebbe mai dipendere da un biglietto di ritorno.